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INTERVISTE

"GORDAN-MARKOTICH"

 
GLI SCACCHI E LA VITA
Il maestro internazionale Gordan Markotich si racconta

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Gordan Markotich
Zagabria, Croazia
data di nascita: 11 aprile 1959
titolo: maestro internazionale
massimo rating ELO: 2455

Gordan, chi sei tu?

Ho cinquant’anni e nella vita ho fatto molte cose diverse, ma se mi chiedono di presentarmi sono molto orgoglioso di dire che sono un maestro internazionale di scacchi, perché in questo modo ottengo rispetto. Se invece dicessi che gioco a backgammon o a poker non sarebbe la stessa cosa, non me ne potrei certo vantare.
Dunque gli scacchi sono il gioco che gode del maggior riconoscimento sociale?
Quando giocavo da professionista in Francia, Spagna e anche Italia, ero piuttosto povero, ma godevo di buona considerazione, non contava com’ero vestito, godevo - come dici tu - di un importante riconoscimento sociale, cosa che oggi credo manchi.
Come hai cominciato con gli scacchi?
Ho imparato a giocare a 4 anni, mi ha insegnato mio padre. L’idea di passare al professionismo, di guadagnarmi da vivere con gli scacchi, l’ho avuta invece abbastanza tardi, a 25 anni. Ero sposato con prole e lavoravo come operaio, insomma ero abbastanza infelice. L’unica cosa che sapevo fare discretamente era giocare a scacchi, allora per risollevarmi mi sono messo a studiare. Poi sono diventato maestro internazionale a 29 anni.

Peccato che non tu non abbia studiato prima, forse saresti diventato un grande maestro?

Credo di si, infatti è stata una mia grande sfortuna. Se posso, approfitterei per dare un consiglio tecnico ai giovani giocatori italiani.

Prego.


Il fatto è che in troppi hanno questa idea fissa dell’importanza del sorprendere l’avversario nella fase di apertura: ebbene è una cosa sbagliata... che anch’io facevo da giovane. È molto più importante studiare e praticare le aperture principali, normali: questo è fondamentale per giocare bene a scacchi.

Che atmosfera si respirava nella Zagabria dove sei cresciuto culturalmente? In termini scacchistici, naturalmente.


Io sono croato, vivevo in Jugoslavia e in quel periodo si giocava a scacchi ovunque, in ogni casa c’era almeno uno scacchiera. Io avevo un po’ di talento, già da piccolo vincevo sempre e a 14 anni ero campione giovanile. Grazie a questo successo sono entrato nel più importante circolo di Zagabria, per me è stato come entrare in chiesa. C’erano tutti i più forti giocatori della zona ed è stato facile migliorare, perché ho avuto la possibilità di giocare con i grandi maestri. È stata un’esperienza incredibile. Si facevano un sacco di partite, ma mai completamente gratis, c’erano sempre in palio degli spiccioli, per avere lo stimolo a non mollare mai. Però purtroppo non si studiava molto, la teoria non era presa nella giusta considerazione, contava solamente la pratica... e mi rendo conto che si trattava di un errore enorme.

E la guerra, Gordan? In qualche modo gli scacchi ti hanno aiutato...


Questo è abbastanza interessante. Nel maggio del ‘92 mi sono ritrovato in guerra, al fronte. Ero soldato semplice e 24 ore di prima linea si alternavano a 48 ore in retroguardia, dove si aveva molto tempo libero. C’era qualcuno che giocava a scacchi, ma erano molto scarsi e non me ne sono interessato. Però un giorno ho visto due soldati che giocavano, uno dei quali continuava a vincere e a deridere l’avversario. Questa sua arroganza mi ha dato fastidio e quindi l’ho sfidato: lo vinsi facilmente anche se, per umiliarlo, gli avevo dato una Torre di vantaggio. Il “pubblico” iniziò a deridere il mio avversario, ma non si accorse di quanto fosse alto il mio livello di gioco, e così, per soddisfare il mio ego, decisi di dimostrare a tutti chi fossi; sfidai di nuovo il mio avversario dichiarando che avrei giocato “alla cieca”, senza guardare la scacchiera. Il pubblicò aumentò e assistette incredulo alla mia nuova facile vittoria. Per tutti diventai un genio... e non mi furono più assegnate mansioni pericolose. La verità è che per uno scacchista normale giocare alla cieca non è una cosa così difficile, ma ai non scacchisti appare spettacolarmente geniale.

Approfitto di questa bellissima storia che ci hai raccontato per farti una domanda, nei panni del “non scacchista” che considera il gioco alla cieca, se non geniale, almeno speciale. A tuo parere, quanto conta la memoria negli scacchi?


Secondo me non molto, io per esempio non credo di avere una grande memoria.

Scusa se ti interrompo, ma per quanto ne so, tu hai una memoria grandissima, ricordo che mi hai descritto mossa per mossa una partita di backgammon che io quasi non ricordavo di aver giocato con te...


Ho forse più una memoria selettiva nel campo degli scacchi, del poker e del backgammon, ma per le altre cose non ricordo nulla, devo sempre chiedere ai miei figli come si chiama questo attore, come si intitola questo film, un sacco di cose. Invece il più grande giocatore della mia epoca, Kasparov, ha una memoria fotografica eccezionale e l’ha anche dimostrato, ma lui è davvero un genio a cui nessuno si può paragonare.

Cambiamo discorso, come sbarca il lunario un maestro internazionale di scacchi?


Quando sono diventato professionista, la cosa più conveniente era giocare per le squadre, perché i circoli possono trovare sponsor più facilmente. Si possono ottenere ingaggi di tutto rispetto e quindi non ti sogneresti mai di “vendere” delle parttie. Mentre giocando partite individuali devi fare i tuoi conti a fine mese, sai il maestro internazionale non guadagna molto.

Vendere
?

Sì, forse “vendere” è un termine troppo forte, comunque l’etica era questa. Nei tornei, soprattutto all’estero quando giochi per la patria, non ci si vende mai una partita... ma quando giocavo da solo era prassi normale. In un torneo col sistema svizzero, con 8 o 9 turni, è determinante soprattutto l’ultima partita, quella che decide se torni a casa con del denaro o meno. E a volte ci possono essere risultati che convengono ad entrambi i giocatori; il sistema svizzero è molto crudele e ti può portare a patteggiare con l’avversario. A questo proposito c’è anche un episodio interessante...

Vuoi raccontarcelo?


Giocavo nella Coppa Croata e all’ultimo turno era tutto ancora possibile, la mia squadra poteva ancora vincere, anche se non eravamo i favoriti. La notte prima della finale un giocatore della squadra avversaria venne da me e mi offrì una grossa cifra per perdere la partita. Colto alla sprovvista ho risposto che ci avrei pensato e naturalmente è stato un grosso errore, avrei dovuto dire subito di no, perché - come ho detto prima - la squadra non si vende mai. Sono subito tornato da lui rifiutando decisamente la sua proposta. Lui ha poi raddoppiato l’offerta e io non solo ho nuovamente rifiutato, ma sono andato dal presidente del mio circolo raccontando cosa fosse successo e dicendogli che l’indomani avrei preferito non giocare. Lui invece mi ha fatto giocare lo stesso, ma io non ho retto la situazione: ho giocato malissimo, ho perso la partita e tutti hanno pensato che l’avessi venduta. Il fatto è che un professionista, in qualsiasi disciplina, deve sempre essere pronto a qualsiasi tipo di pressione... e io in quel caso ho fallito.

Come mai hai abbandonato gli scacchi?
È una cosa abbastanza insolita...

Vero, è assolutamente raro che un giocatore del mio livello abbandoni gli scacchi. Io giocavo solo all’estero per le squadre tedesce, francesi, spagnole, mi pagavano abbastanza bene e questo mi era sufficiente. Poi si sono aperte le frontiere e molti giocatori ex-sovietici, non solo russi, sono entrati in Europa occidentale. Una concorrenza spietata, giocatori duri e forti, abituati a condizioni pessime: lottavano in ogni partita come se fosse una questione di vita o di morte, giocavano meglio di me e chiedevano meno soldi. Non hanno avuto troppe difficoltà a prendere il mio posto in Germania. Per giocare a scacchi devi avere una grande passione, ma quando il gioco diventa una professione devi anche essere ben motivato e preparato mentalmente. Molti giocatori sono caduti, e in parte anch’io, per questioni legate alla vita di tutti i giorni: stabilità familiare, soldi, cose del genere.

Chiuso con gli scacchi, sei passato al backgammon: una scelta o un caso?


È stato proprio un caso. In Francia giocavo a scacchi per la squadra di Nizza, guadagnavo abbastanza bene, ma avevo bisogno di arrotondare: nel loro circolo l’unico gioco in cui si potesse guadagnare qualcosa era il backgammon. All’inizio non sapevo nemmeno cosa fosse, poi ho imparato meglio di altri ed ero anche molto fortunato... per farla breve, guadagnavo più soldi con il backgammon che con gli scacchi.

E ora col poker, il gioco che oggi va per la maggiore.


Mi sono messo a lavorare nel campo del poker, perché in realtà io non sono un giocatore, quasi preferisco lavorare. Nel mondo del poker mi sono trovato benissimo, vi sono entrato in una età molto tarda, ma ho fatto moltissimi miglioramenti. Poi sono anche diventato direttore di tutti i tornei al casinò di Campione e per me è stata una soddisfazione enorme. Ho anche giocato e vinto parecchio, ma pensandoci bene è un gioco che non mi piace, nel campo del poker preferisco lavorarci, troppa gente è caduta nella trappola del credere di poter guadagnare facilmente da professionista del poker.
E a scacchi, non giochi proprio più?
L’ultima volta ho giocato 5 anni fa. In realtà sono il primo scacchista croato in assoluto che è andato liberamente a giocare in Serbia, mi avevano invitato degli amici ad un torneo. Ne sono orgoglioso. Così è la vita, ero in prima linea proprio contro i serbi, ma poi sono stato il primo a giocare assieme a loro.

Per chiudere, hai un consiglio da regalare ai lettori?


Ho la sensazione che di scacchi potrei parlare all’infinito. Posso dare un consiglio ai genitori: se avete un figlio che tende un po’ a isolarsi, offritegli gli scacchi, aiutano molto. A me hanno aiutato tanto... se non fossero esistiti gli scacchi io non sarei diventato nessuno. Io ho un’enorme gratitudine verso questo bellissimo gioco!

Grazie Gordan, e tanti auguri per i tuoi futuri progetti!